IL POETA E LA SUA FERITA DI ANGELO
di Ilaria Gallinaro
di Ilaria Gallinaro
La fredda ricerca del filologo erudito contrapposta alla calda verità della poesia? In realtà non so se condividere a pieno una così netta contrapposizione: certo è che, posta in un altro modo, la questione presenta un risvolto affascinante. Il poeta attinge a delle verità importanti alle quali la filologia darà poi un volto più definito… E allora poco importa distinguere filologia e poesia: entrambe hanno il compito di svelare l'opera d'arte, ciascuna con i suoi strumenti, ciascuna per la sua strada, l'una non meno nobile e preziosa dell'altra. Miredi racconta una volta ancora ( e chissà quante volte ancora dovremo raccontare queste favole perché davvero esauriscano il loro potere di conoscenza) alcuni dei miti greci e dice di farlo con una “poetica coerenza filologica”: sceglie fonti ben precise, le compara, le analizza, con lo scopo di spiegarle più a fondo, di piegarle a una ragione nascosta. Sceglie tra tutte le storie che la Grecia ci ha consegnato, “le maschere del poeta”, tutte quelle figure che portano con sé la ferita, il taglio dal quale nasce la poesia. E' sempre una frattura quella che genera la poesia: quella primigenia tra i nomi e le cose, che ci impone di rinominarle infinite volte alla ricerca del vero significato, della possibilità sempre lontana di saldare lo iato, poi quella tra i tempi della vita, tra desiderio e rimpianto, tra speranza e nostalgia, sempre sospesi al di qua o al di là del presente, poi tra noi e gli altri, tra noi e e noi stessi. Da queste fenditure nasce la poesia, o meglio sgorga, come linfa dalle fessure dei tronchi, come le figure, questa volta al di là di ogni vuota e scontata metafora, pensate da Miredi: da un tronco spaccato nasce Adone, un corpo disfatto in un riflesso d'acqua è Narciso, il fegato aperto è il segno di Prometeo, i piedi lacerati quelli di Edipo, una testa staccata dal corpo quello di Orfeo. Miredi ci persuade che solo da un corpo aperto, da un corpo che sanguina, nasce la poesia. E tutto il suo percorso, che si legge nell'ordine in cui dispone le maschere del poeta, tende a disegnare esattamente questo concetto: da Adone, nato dalla ferita di un albero, lui stesso squarciato nel fianco bellissimo da un cinghiale innamorato (il lutto della bellezza). A Narciso, che perde il suo corpo nell'acqua, nella contemplazione della conoscenza (la morte nello specchio della conoscenza), a Prometeo, che si offre al martirio dell'acqua che gli divora il fegato ogni giorno (il dono e il supplizio del fuoco). Poi Edipo, il cui nome significa “dai piedi gonfi”, e la cui storia è quella, ci dice Miredi dell'Innocenza della colpa sacrificata. Chiudono il corte di maschere Ermes ed Apollo in coppia con Dioniso: apparentemente liberi dalla ferita e dal sangue, ma anch'essi segnati da una ambiguità importante, che Miredi mette in luce, titolando i capitoli relativi dell'invisibilità dell'opera e “il doppio oscuro luminoso”. Si tratta, a ben vedere, di una scoperta rappresentazione dell'opera d'arte, un'analisi che, sotto il velo lucente della mitologia greca, mette a nudo l'idea stessa di poesia.Parte dalla superficie del compiacimento estetico, da Adone, la bellezza, l’ordine, l’armonia che è propria dell’opera d’arte anche quando parla di morte e sangue, poi la tentazione di Narciso, Prometeo, e Edipo, tutti tesi verso un viaggio di conoscenza sempre più profondo: dal semplice riflesso dell’acqua, che è la prima conoscenza di sé (e che richiede un sacrificio immenso, la perdita del proprio corpo), alla conoscenza intesa come arte, tecnica, scienza, qual è quella che Prometeo concede agli uomini, pagandola con la tortura dell’aquila, fino alla conoscenza della morte, di chi ci ama e di chi amiamo, ma anche di noi stessi, attraverso Orfeo che non solo vede morire due volte la donna che stava per diventare sua moglie, ma, testa smembrata dal corpo e affidata alle acque sembra contemplare quasi un privilegio inaudito e sconvolgente, la propria morte. E poi Edipo, conoscenza intuitiva e profonda della storia dell’uomo (attraverso l’enigma) e conoscenza devastante della propria (attraverso passi terribili compiuti senza saperlo).Come Narciso attinge a se stesso attraverso un’illuminazione improvvisa e sconvolgente capace di annientare: non è solo più conoscenza di un corpo perfetto, ma di un’anima condannata, che troverà nella cecità, nel sacrificio alla prima percezione, forse la più superficiale potremmo concludere, l’unica consolazione e l’unico modo di percepire il mondo. E dal farsi dell’opera attraverso armonia e conoscenza si giunge all’opera stessa: Ermes, che è invisibile e nasce furfante, e Apollo e Dioniso due volti dell’estasi creatrice, di matrice nietzschiana. Entrambi, come si diceva, ambigui: Ermes perché pone l’opera sotto il segno del furto (ma quanto ci insegna la storia letteraria sull’importanza di rubare a un codice) e dell’invisibilità (l’opera a volte tace, non riesce a far sentire la sua voce e vaga invisibile per il mondo, fino a quando non trova orecchie disposte ad ascoltarla. E quanti destini postumi potremmo raccontare a capolavori immensi!) Apollo e Dioniso a ricordare che tutta l’armonia del mondo che un autore riesce a bilanciare in un’opera sono il frutto il più delle volte di un oscuro lavoro, illuminato sì dai bagliori del talento e dell’ispirazione, ma anche ferito dalla fatica della stesura, della composizione. Ogni autore sorride alla fine della propria pagina, quale che ne sarà il destino e questa è la luce che nessuno potrà togliergli; ogni autore e un po’ un angelo ferito, un lampo di intuizione (l’ala) da imbrigliare e costringere (a volte per fortuna, forzando felicemente le convenzioni ) alle leggi di una lingua, di una tela, di un codice musicale: ed è questa una fatica che ferisce e consola. Il mito greco sopporta anche questa lettura: Miredi ce la offre in pagine piane, che hanno spesso il gusto filologico (questo sì) del procedere a ritroso: ogni storia è narrata con un’attenzione raffinatissima alle cause prime, ogni mito ha radici forti in ciò che lo procede, ogni gesto ha una ragione in un gesto passato. E così chi vuole attraverso il libro per rileggere un’altra volta i miti, trova una ragione in più per apprezzare queste pagine. Per Adone si torna indietro fino a Mirra, sua madre, incestuosa amante del padre, invasata da Venere, che a sua volta si innamorerà di quel fanciullo dal corpo velocissimo e luminoso; per Narciso si racconta tutta la storia di Eco e anche la variante della sorella gemella Narcisa e così via, per giungere al capitolo su Apollo in cui in un intreccio orchestrato con toni da romanzo si ripercorrono le storie più importanti dell’Olimpo, da Leto a Pito, fino a Deucalione e Pirra. E questo racconto che rimbalza all’indietro offre al lettore un punto di vista diverso, un orizzonte più ampio, dal quale tutte le storie già note si legano in una costruzione perfetta, dove le cause e gli effetti si rispondono come gli armonici di una nota, che salgono di frequenza fino a non riuscire quasi più a percepirli, ma colmando delle proprie vibrazioni tutti i suoni che invece giungono alle nostre orecchie. Ogni volta che proviamo a raccontare una storia già scritta non la ripercorriamo mai con innocenza e in modo disinteressato: così Miredi, dicendo ancora una volta i miti greci orchestra le sue voci in un orizzonte nuovo, ampio e segnato da complesse interferenze, offre una sua teoria della poesia e mediata dalle figure mitologiche e forse, di nascosto ma neanche troppo, ci mostra un po’ di sé.
Ilaria Gallinaro
Antonio Miredi, L'Angelo ferito. Le maschere del poeta. Torino, Omega Edizioni