84 anni fa, nelle campagne di Granada, veniva assassinato il poeta della natura e dell'amore oscuro, vittima innocente della guerra civile spagnola. Nella sua poesia ha prefigurato la sua morte, rievocata in un racconto poetico.
Federico García Lorca, (Fuente Vaqueros, 5 giugno 1898 – Víznar, 19 agosto 1936
Sia
il mio cuore cicala
sopra i campi divini
e che muoia lentamente
cantando
trafitto di cielo l’azzurro,
mentre una donna che
indovino,
con le mani lo sparga spiando
nella polvere nuda.
E
sia il mio sangue, sporco di campo,
un limo dolce e rosato
per
le zappe sospinte
dei contadini stanchi...
Lorca, Cicala (vers.
a.m.)
E’
un agosto inquieto, pregno di sangue caldo e caldo odio, e il
regolamento dei conti con la caccia al nemico avviato da mesi.
Federico non si sente esposto in prima persona, eppure il suo cuore
geme e già in molti sono a suggerire di fuggire nel Messico lontano.
E pensare che sente ancora la felicità di aver trovato un nuovo
amore “oscuro”. Il biondo Juan, “talmente bello che non si può
guardare…” Ma ha 19 anni, e per partire con lui verso la libertà
del Messico occorre il benestare dei genitori.
Da solo non sarebbe
mai partito. A Madrid il rischio però è inevitabile. Meglio seguire
il consiglio di riparare presso amici falangisti, a Granada. Uno di
questi è anche un amico poeta. Fra poeti non ci può essere l’odio
feroce della politica e dell'’ideologia pronte a dividere gli
uomini. Il poeta delle cicale, e degli alberi, e del mare, dell’amore
e del dolore, non vuole morire. Non si sente un eroe pronto ad
immolarsi. Gli eroi nascono dalle tragedie della Storia e lui è un
poeta che conosce solo la tragedia della vita dove il miracolo e la
morte devono avere il loro ciclo naturale ineluttabile.
Quando il
sindaco socialista di Granada, suo cognato, viene arrestato e
fucilato è come se già avessero bussato alla sua porta. E quel
rumore sordo, sinistro, come una campana a morte, arriva in
quell’agosto pregno di sangue caldo e caldo odio.
Lo illudono
nemici ed amici, un arresto può essere solo un fottuto equivoco.
Neruda già grida il suo sdegno, ed è una voce della poesia che è
voce universale.
Il silenzio dei giorni della prigionia è invece
un silenzio che copre le ferite delle torture all'anima e al corpo,
con la volgare risata sguaiata dell’ignoranza.
La mattina
all’alba, l’azzurro del cielo è di raso. E’ bello l’azzurro
ma è un azzurro che pesa sul cuore. Accanto a lui un maestro di
scuola e due anarchici toreri. Sono stati condotti alla periferia di
Granada, in aperta campagna. Camminano silenziosi e il capo
inclinato, davanti a uomini che imprecano fra risate e minacce. E poi
improvviso l’ invito a scappare.
“Scappate, scappate…”
urlano alle vittime che attonite esitano, presentono che è un invito
a una morte in corsa. Federico non vuole morire. Il poeta delle
cicale, e degli alberi, e del mare, dell’amore e del dolore, non
vuole morire. In mezzo agli olivi qualcuno inizia a scappare e anche
lui comincia la sua inutile fuga pronta ad inciampare. I colpi alla
schiena arrivano prima, sono colpi simili a fitte di spine di fiotto
sangue di una rossa rosa.
Il lento lamento della morte senza senso
ora ha l’ascolto solo degli ulivi e della terra della compagna
sporca del suo sangue. Non ci sono ancora le cicale a cantare. E
quando le cicale canteranno nell’ardore del meriggio d’agosto del
suo corpo nessuno più sa.
Solo loro, le cicale, forse lo sanno.
Antonio Miredi
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