Un
capolavoro visivo, un omaggio col cuore al mondo dell'infanzia. Il
doppio fra naturalismo e fantastico, realismo e grottesco,
desolazione e meraviglia. Un bambino-burattino di legno iperreale,
iconicamente perfetto ma con l'emozione imprigionata, in cui la
trasgressione si risolve alla fine nell'abbraccio consolatorio.
Una
delle prime scene del Pinocchio di Matteo Garrone, Geppetto che mostra a
Pinocchio uno specchio per riconoscersi, rivela già tutto il cuore
messo in questa ultima fatica di trasposizione italiana del Burattino
più famoso al mondo, creato dal genio fantastico di Carlo Collodi.
In
un gioco mimetico di trasposizione, a specchiarsi è anche lo stesso
regista, provando a rituffarsi nel suo immaginario infantile, al
suo primo incontro con il personaggio Pinocchio, per poi risalire e
recuperare l'immaginario visivo degli illustratori e registi che si
sono confrontati con la favola. A cominciare dall'insuperato e per
certi aspetti, nonostante il tempo passato, insuperabile Luigi
Comencini, e il suo Pinocchio magicamente umano, tenero e
sorprendente, ormai marchiato nell'immaginario degli stessi italiani.
A specchiarsi è anche lo stesso Benigni, il quale nel 2002 era
stato egli stesso regista e protagonista.
Lo
specchio funziona come doppio, una cifra che caratterizza molto la
cinematografia di Garrone, soprattutto alla luce dei suoi ultimi due
film, Il racconto dei racconti e Dogman.
C'era
molta attesa per questo progetto fermo da qualche anno e che esce
proprio sotto Natale, non a caso, essendo un omaggio chiaro e
diretto al mondo dell'infanzia e al rapporto affettivo genitoriale.
Il
doppio è anche quello tra solitudine e abbraccio, avventura e
inquietudine, presenza e fuga.
Il
Pinocchio di Garrone è innanzitutto un capolavoro visivo, una prova
impeccabile di stile e illustrazione, che non dimentica la memoria
anche della pittura, soprattutto quella toscana dei macchiaioli.
Originale nel voler restare fedele alla fiaba di Collodi, creando
allo stesso tempo una ambientazione di mondo contadino da Presepe,
con la sua mesta povertà, con i toni scuri e spettrali.
Un
Pinocchio in cui il naturalismo si coniuga benissimo col grottesco
surreale, accentuando l'animalità antropomorfica. Un ibridismo in
cui abbandono e senso della rovina e della desolazione trovano un
loro felice controcanto nel festoso e colorato teatro e circo dei
burattini.
La
fame di Geppetto che apre la storia nel film, divertente e
comica invenzione, rispetto al testo originale, è fame di
curiosità, come dimostra la scena in cui il falegname rimane
sedotto dal passaggio per strada del carro coi burattini, e che
porterà poi all'incontro col magico pezzo di legno, rifiutato
dall'impaurito Mastro Ciliegia.
Anche
il magico ha un suo doppio: è meraviglia ma anche paura. In
Geppetto, capace di accogliere il magico ambivalente e in Pinocchio,
che preso dal magico e dalla meraviglia, abbandona realtà e dovere.
Tutto
in questo Pinocchio che non teme di essere un creativo travaso fra
Libro e Cinema sembra perfetto, la scelta e la bravura degli attori,
Benigni in primis, così inadeguato e quasi a disagio nel suo
precedente Pinocchio, qui tenero e desolato, comico e candido, Il
Mangianfuoco Proietti commovente nella sua maschera di Orco, e
peccato che non si è voluto o potuto utilizzare di più la sua
figura, l'omino di panna (Nino Scardina) falsamente amorevole, il
vero orco da disgusto della storia, e la coppia riuscitissima del
Gatto e la Volpe, Roco Papaleo e Massimo Ceccherini, anche sceneggiatore del film insieme a Garrone.
Il loro
“Pizzicchiamo...Pizzichiamo” non lascerà senza segni.
Il
doppio torna con la Fata, sorella bambina nella complicità dei
giochi e madre adulta, diafano fantasma, con l'attrice Marine Vatch
e che tanto ricorda il personaggio gotico di Miss Havisham del film
Grandi Speranze, del 2011 targato BBC.
E
che dire della indimenticabile Lumaca, (Maria Pia Timo) o del ferino
Giudice (Teco Celi). Tutti personaggi, compresi i minori, che
meritano una filologica analisi a parte.
E
arriviamo alla sapiente maestria del trucco che crea mirabolanti
effetti speciali senza troppo ricorrere alla tecnologia digitale,
affidata a Mark Coulier, capace di creare un bambino burattino di
legno iperreale, così materico nella sua pelle, da imprigionare il
calore commovente dell'anima e la bravura del protagonista, Federico
Lelapi, anche se iconicamente destinato a restare nella memoria
visiva.
Il
ritmo quindi passa felicemente da immagine a immagine, attraverso le
suggestive scenografie e i costumi, sulle belle note delle musiche
di Dario Marianelli, ma sembra incrinarsi nel passaggio
emotivo interiore con lo spettatore, che vede anche bruscamente
risolto il finale salto da burattino a bambino, senza una
particolare attenzione metamorfica, nel consolatorio abbraccio da
atmosfera natalizia.
Ma
con onestà è lo stesso regista che ha voluto questo quasi
annullare la sua più intima natura di regista per rimanere fedele a
un racconto sotto Natale tutto rivolto ai bambini e agli adulti che
sappiano ritrovare il loro cuore fanciullo.
Antonio
Miredi
La locandina del film
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