mercoledì 25 dicembre 2019

IL PINOCCHIO DI GARRONE



Un capolavoro visivo, un omaggio col cuore al mondo dell'infanzia. Il doppio fra naturalismo e fantastico, realismo e grottesco, desolazione e meraviglia. Un bambino-burattino di legno iperreale, iconicamente perfetto ma con l'emozione imprigionata, in cui la trasgressione si risolve alla fine nell'abbraccio consolatorio.



Una delle prime scene del Pinocchio di Matteo Garrone, Geppetto che mostra a Pinocchio uno specchio per riconoscersi, rivela già tutto il cuore messo in questa ultima fatica di trasposizione italiana del Burattino più famoso al mondo, creato dal genio fantastico di Carlo Collodi.

In un gioco mimetico di trasposizione, a specchiarsi è anche lo stesso regista, provando a rituffarsi nel suo immaginario infantile, al suo primo incontro con il personaggio Pinocchio, per poi risalire e recuperare l'immaginario visivo degli illustratori e registi che si sono confrontati con la favola. A cominciare dall'insuperato e per certi aspetti, nonostante il tempo passato, insuperabile Luigi Comencini, e il suo Pinocchio magicamente umano, tenero e sorprendente, ormai marchiato nell'immaginario degli stessi italiani. A specchiarsi è anche lo stesso Benigni, il quale nel 2002 era stato egli stesso regista e protagonista.
Lo specchio funziona come doppio, una cifra che caratterizza molto la cinematografia di Garrone, soprattutto alla luce dei suoi ultimi due film, Il racconto dei racconti e Dogman.
C'era molta attesa per questo progetto fermo da qualche anno e che esce proprio sotto Natale, non a caso, essendo un omaggio chiaro e diretto al mondo dell'infanzia e al rapporto affettivo genitoriale.
Il doppio è anche quello tra solitudine e abbraccio, avventura e inquietudine, presenza e fuga.
Il Pinocchio di Garrone è innanzitutto un capolavoro visivo, una prova impeccabile di stile e illustrazione, che non dimentica la memoria anche della pittura, soprattutto quella toscana dei macchiaioli. Originale nel voler restare fedele alla fiaba di Collodi, creando allo stesso tempo una ambientazione di mondo contadino da Presepe, con la sua mesta povertà, con i toni scuri e spettrali.
Un Pinocchio in cui il naturalismo si coniuga benissimo col grottesco surreale, accentuando l'animalità antropomorfica. Un ibridismo in cui abbandono e senso della rovina e della desolazione trovano un loro felice controcanto nel festoso e colorato teatro e circo dei burattini.
La fame di Geppetto che apre la storia nel film, divertente e comica invenzione, rispetto al testo originale, è fame di curiosità, come dimostra la scena in cui il falegname rimane sedotto dal passaggio per strada del carro coi burattini, e che porterà poi all'incontro col magico pezzo di legno, rifiutato dall'impaurito Mastro Ciliegia.
Anche il magico ha un suo doppio: è meraviglia ma anche paura. In Geppetto, capace di accogliere il magico ambivalente e in Pinocchio, che preso dal magico e dalla meraviglia, abbandona realtà e dovere.
Tutto in questo Pinocchio che non teme di essere un creativo travaso fra Libro e Cinema sembra perfetto, la scelta e la bravura degli attori, Benigni in primis, così inadeguato e quasi a disagio nel suo precedente Pinocchio, qui tenero e desolato, comico e candido, Il Mangianfuoco Proietti commovente nella sua maschera di Orco, e peccato che non si è voluto o potuto utilizzare di più la sua figura, l'omino di panna (Nino Scardina) falsamente amorevole, il vero orco da disgusto della storia, e la coppia riuscitissima del Gatto e la Volpe, Roco Papaleo e Massimo Ceccherini, anche sceneggiatore del film insieme a Garrone. 
Il loro “Pizzicchiamo...Pizzichiamo” non lascerà senza segni.
Il doppio torna con la Fata, sorella bambina nella complicità dei giochi e madre adulta, diafano fantasma, con l'attrice Marine Vatch e che tanto ricorda il personaggio gotico di Miss Havisham del film Grandi Speranze, del 2011 targato BBC.
E che dire della indimenticabile Lumaca, (Maria Pia Timo) o del ferino Giudice (Teco Celi). Tutti personaggi, compresi i minori, che meritano una filologica analisi a parte.
E arriviamo alla sapiente maestria del trucco che crea mirabolanti effetti speciali senza troppo ricorrere alla tecnologia digitale, affidata a Mark Coulier, capace di creare un bambino burattino di legno iperreale, così materico nella sua pelle, da imprigionare il calore commovente dell'anima e la bravura del protagonista, Federico Lelapi,  anche se iconicamente destinato a restare nella memoria visiva.
Il ritmo quindi passa felicemente da immagine a immagine, attraverso le suggestive scenografie e i costumi, sulle belle note delle musiche di Dario Marianelli, ma sembra incrinarsi nel passaggio emotivo interiore con lo spettatore, che vede anche bruscamente risolto il finale salto da burattino a bambino, senza una particolare attenzione metamorfica, nel consolatorio abbraccio da atmosfera natalizia.
Ma con onestà è lo stesso regista che ha voluto questo quasi annullare la sua più intima natura di regista per rimanere fedele a un racconto sotto Natale tutto rivolto ai bambini e agli adulti che sappiano ritrovare il loro cuore fanciullo.
Antonio Miredi



                                                        La locandina del film 







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