domenica 29 maggio 2022
UNA SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DA RECORD
Si è chiusa con un numero di visitatori da record la trentaquattresima Edizione Internazionale del Libro di Torino con lo scrittore Nicola Lagioia come direttore artistico superando ogni previsione . Ma il successo della manifestazione non annulla il fatto reale che in Europa restiamo un Paese che legge pochi libri e con gli studenti che non sanno scrivere e comprendere un testo
SETTE ANNI AL SALONE CON GIOIA----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Nomen Omen. Si è chiusa con un numero di visitatori da record la trentaquattresima Edizione Internazionale del Libro di Torino con Nicola Lagioa, in una atmosfera generale di Festa, dimensione costante in questi sette anni di Direzione Artistica dello scrittore barese (La ferocia-2014 La città dei vivi.2020), al duo ultimo mandato pieno. Il prossimo anno prima di lasciare dovrà affiancare un nuovo Direttoe e già cominciano a circolare i primi nomi di chi dovrà esere al timone di un Salone del Libro uscito in questi ultimi anni, dopo una situazione di crisi e di sconcerto, dal rischio di veder trasferito in un altro luogo un ennesimo primato di Torino.
sabato 14 maggio 2022
LA VIDEOCRAZIA UNA CONTINUA MINACCIA ALLA DEMOCRAZIA NEL MONDO
Una riflesione, a partire dal docufilm di Erik Gandini del 2009 Videocracy_Basta apparire, sulla natura distopica della videocrazia e della sua influenza nella vita quotidiana e nel modo di pensare
L'ORRIDO DELLA TELEVISIONE COME SPETTACOLO DELL'APPARENZA-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
In Videocracy – Basta apparire, tutti sorridono, protagonisti e figuranti. Tutti sorridono ma in modo diverso. Si inizia col sorriso pruriginoso e volgarotto dei conduttori notturni della primissima Tv privata commerciale, ben prima che nascesse il network televisivo di Berlusconi, Tele Torino, che con delle domande in diretta per telefono, inaugurano lo spogliarello casereccio della casalinga mascherata. Sorride ma di un sorriso fra il genuino e l’amaro, Rick Rock (Riccardo Canevali) mentre si allena nel cortile di casa con lo sguardo sorridente della mamma protettiva. Rick rappresenta l'italiano medio e fa da filo narrativo a questo docufilm di Erick Gandini,italiano trapiantato in Svezia. Lo vedremo attraversare tutta la narrazione nel suo tentativo di diventare attore o cantante. Scorrono altre immagini della televisione commerciale, questa volta targata Mediaset, e arriva il sorriso compiaciuto e vuoto delle showgirls scollacciate e pronte a sculettare, il sorriso inconsistente e muto delle veline, il sorriso sardonico e maschilista dei presentatori vip, per arrivare alla coppia Lele Mora e Fabrizio Corona che in questo caso vengono intervistati. Il sorriso di Corona non ha bisogno di fingere: sa di essere uno che sfida le leggi ma è da simpatica canaglia autoproclamatosi “un moderno Robin Hood pronto a rubare ai ricchi per donare a se stesso”. Abituato al piacere di guardare ed essere guardati, si fa riprendere nudo sotto la doccia o mentre davanti alo specchio si ammira sapendo di essere un oggetto di desiderio.
“Quando vedo una persona famosa penso subito ai soldi” dice ancora senza mediazioni e tanti giri di parole. Ecco la formula magica, essere famosi! E per diventare famosi basta apparire, passare per quella scatola magica che è la televisione.
Lele Mora è il vero deus ex machina di questa scatola magica perché ha il compito di essere il medium in un ruolo ambiguo fra l’aspirazione italica della folla di aspiranti alla celebrità di stelline e tronisti e la reale opportunità offerta, toccando una sfera privata che arriverà allo scoperto solo in anni più recenti.
Mora è di sicuro il personaggio più inquietante di Videocrazy. Si fa intervistare nella totalità di un accecante bianco immacolato”: bianca la stanza, bianco il letto matrimoniale, bianco il vestito che indossa, persino il sorriso ha il candore di una espressione imbambolata, ubriaca di successo. Un candido sorriso ebete che non ha nessuna esitazione a mostrare apertamente la sua anima nera, che più nera non si può, quando fa ascolterò la suoneria con canzoni del fascismo che mostrano anche immagini della simbologia nazista. Incoscienza? No, la innata convinzione di appartenere a una maggioranza anche se nascosta di questa anima nera che ha le mille maschere della società e della politica italiana.
L’Agenzia di Mora e quella che ha coltivato la fauna femminile di ragazze belle e prosperose che popolano le trasmissioni delle televisioni del Presidente, il cui sorriso è quello fiero dell’imprentare che si “è fatto da solo” fino a diventare uno fra gli uomini piu ricchi d’Italia, e l'uomo politico di fama mondiale, in familiarità nella sua villa esclusiva in Sardegna coi Grandi della Terra come Tony Blair o Vladimir Putin.
Videocracy -Basta apparire non è comunque un video contro il Berlusconi politico, almeno non lo è alla maniera di un report che tocca le scelte politiche e gli interessi personali di un Capo.
Videovrazy è una rappresentazione di immagini con un commento essenziale sul potere televisivo e di come questo potere sia capace non solo di dare spazio a un immaginario collettivo ma di insinuarsi in maniera anche inconsapevole nelle coscienze, fino a influenzare e mutare un modo di essere e di pensare.
Le reazioni feroci e le censure che questo video ha scatenato alla sua presentazione ufficiale a Venezia, stanno a dimostrare la sua natura dispotica di denuncia nonostante il suo aspetto orrido possa diventare persino un alibi per rifiutarlo senza possibilità di una critica analisi.
A più di dieci anni di distanza in Italia è forse cambiato qualcosa circa il potere videocratico della Televisione?
Le trasmissioni sono le stesse, stessi i protagonisti della scena politica e mondana, nonostante per alcuni, come Corona e soprattutto Mora, siano arrivati nel frattempo i guai giudiziari e alcuni anni di carcere.
La Videocrazia è una minaccia alla Democrazia in tutto il mondo ma l’anomalia di una totale commistione fra potere informativo e televisivo e potere politico imprenditoriale resta una peculiarità italiana che ancora si tende a sottovalutare o ignorare.
(Antonio Miredi)
domenica 8 maggio 2022
IL DIABOLIK DEI MANETTI BROS ORA DISPONIBILE ANCHE IN HOME VIDEO
Il film sul mito italiano del fumetto noir con l'antieroe Diabolik disponibile in Home Video con più opzioni, compreso cofanetto per collezionisti, numerato con ristampa del fumetto in cui appare per la prima volta Eva Kant, grande protagonista della storia. La recensione al film di Antonio Miredi.
IL VERO DIABOLIK E' EVA KANT
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Uscito a più di 50 di distanza rispetto alla trasposizione cinematografica del Diabolik di Mario Bava, che non ha avuto particolare fortuna ma che forse meriterebbe di essere ripensato, il Diabolik dei Manetti Bros, è germinato da una genuina ammirazione verso un mito tutto italiano del fumetto noir, nato grazie alla intraprendenza delle sorelle Giussani nella Milano delle rapine degli anni del boom economico anni sessanta.
Fedele a questa ammirazione la regia coerentemente si muove lungo i bordi di uno scrupoloso lavoro filologico, senza discostarsi dalla cornice di una letteratura disegnata che il cinema ha il potere e la magia di animare e personificare.
Già dalla primissime scene con l’inseguimento delle auto della polizia con l’iconica jaguar nera del Re del Terrore, sempre pronto a stupire con i suoi colpi di teatro, a farsi beffe dell’antagonista Ginko e sfuggire alla cattura, si entra in piena dimensione piatta da tavola comics con un effetto per quanto freddo altamente suggestivo.
Costumi, scenografia, fotografia, musiche, dialoghi,(una recitazione manierata che pone una pausa di distanza fra l' immagine e le parole che sembrano uscire dalle nuvolette) tutto ruota attorno a una rappresentazione da albo completo di fumetto.
Nel caso del film, gli albi che lo ispirano sono due, soprattutto il numero 3 quello che narra l’arresto di Diabolik. E non a caso.
E’ a partire infatti da questo numero che entra in scena Eva Kant, l’alter ego di Diabolik, altrettanto misteriosa, carismatica, distante ma empaticamente presente.
Diciamolo subito, è lei, Eva, interpretata alla perfezione da Miriam Leone, la vera protagonista, dominando la scena con la sua bellezza, intelligenza, sensualità e spregiudicatezza.
Al punto che Diabolik, col corpo attoriale di Luca Marinelli, è del tutto inadeguato senza la presenza scenica di Eva.
Il personaggio antieroe Diabolik del fumetto, anche se distaccatamente cinico, conserva sempre un suo fascino ambiguo con le sue maschere e trasformazioni identitarie, e in particolare una felina sinuosità fisica nella sua calzamaglia scura che Marinelli nella pellicola non fa apparire. Tanto è vero che Diabolik è visto per lo più nei suoi primi piani di volto, con i suoi occhi azzurro chiaro più che blu acciaio del personaggio del fumetto, e mai nella interzza del classico attillato costume.
Masteandrea di sicuro è più convincente nella parte di Ginko, nonostante l’apparente manierismo didascalico impresso alla narrazione filmica che riduce l’azione tutto a vantaggio dell’intrigo mentale.
La triade Diabolik, Eva, Ginko del film ha senza dubbio nell’insieme una stupefacente fascinazione visiva, nonostante il senso di estraniamento stilistico, grazie in particolare a Miriam Leone e Valerio Mastrandrea i quali, pur attenendosi al codice registico dato dai fratelli Manetti, entrano con convinzione nella loro parte, meno convinto sembra Marinelli.
Come si è potuto notare anche a Torino, durante l'anteprima dell’incontro stampa del film alla Mole Antonelliana, sede del Muso del Cinema, dove si inaugurava anche l'interessante mostra sul Mito di Diabolik: nel rispondere alle domande, Luca Marinelli è apaprso più distaccatamente annoiato che partecipe del personaggio da lui rappresentato.
Diabolik è un film elegante, destinato a rimanere impresso per l’iconografia fotografica, rispettoso, e con una sua originale lettura femminista che fa onore al genio femminile che ha creato questo mito. Verso la fine del film, quando per Diabolik tutto sembra definitivamente finito, nuovamente catturato da Ginko, gli viene detto: Sei destinato a perdere perché tu sei solo.
E la risposta salvifica è: Io non sono solo.
Nonostante l'eros della figura di Eva che conserva il magnete del desiderio anche solo attraverso lo sguardo, nel film l’erotismo, uno degli elementi del successo del fumetto, è del tutto assente e fa mancare quel guizzo di palpito capace di uscire dallo schermo per entrare alla fine nel cuore dello spettatore. (Antonio Miredi)
lunedì 25 aprile 2022
BELLA CIAO E LE SUE MILLE VITE E MILLE STORIE
Giulia Giapponesi con Bella ciao-Per la libertà compie una ricerca-viaggio attorno alla canzone oggi più cantata nel mondo, cercando con filmati e interviste di chiarirne le origini oscure, e lasciandoci una testimonianza civile con bella sensibiltà femminile.
Bella ciao è soprattutto una canzone antifascista. Il fascismo non è solo un fenomeno collocato in un preciso periodo storico, come affermava lo stesso suo fondatore, Mussolini, il fascismo era già presente nell’inconscio degli italiani. Così Bela ciao non è solo una canzone di un determinato tempo storico ma un salvavita, un anticorpo che scatta quando c’è una privazione di libertà
Parole del cantautore trovatore, sua stessa auto definizione, di Vinicio Capossela che dalla casa colonica dei Fratelli Cervi a Reggio Emilia, museo della Resistenza, ci introduce in Bella Ciao -Per la libertà.
Ed è una affermazione che già Piero Gobetti, all'indomani della marcia su Roma, aveva teorizzato nel suo scritto sul “Fascismo come autobiografia di una nazione”. Una conquista della libertà che bisogna continuamente difendere.
In anteprima al Bif&st, per pochi giorni nelle sale cinematografiche e passato in telvisione dalla Rai nei giorni a ridosso del 25 Aprile, Bella Ciao, per la libertà è un appassionato e appassionante viaggio nel tempo e nello spazio delle geografie umane di Giulia Giapponesi, alla sua prima prova registica nel provare a trovare un filo narrativo per raccontare la genesi oscura della canzone oggi più cantata al mondo.
Una storia talmente confusa da risultare arduo una sua lineare e filologica ricostruzione.
Non si sa davvero chi sia l'autore e chi abbia musicato Bella ciao, e proprio questo sua anonima origine ha permesso di essere un canto di tutti e di nessuno, aprendosi cioè a ogni contaminazione melodica e linguistica.
La natura ibrida della sua storia non poteva non essere anche la struttura di questo lavoro cinematografico. Poco specificatamente narrativo per essere un film, non abbastanza filologicamente cronologico per essere un documentario. L'originalità di Bella ciao, il cui sottotitolo ne rivela la sua natura di canto di libertà, consiste allora nello scrupolo con cui Giulia Giapponesi con filmati d'epoca, interviste a testimoni, musicisti, storici, brani musicali catturati dalla videosfera di tutto il mondo, ne fa una tessitura di testimonianza civile. E lo fa con una sensibilità spiccatamente femminile, dando alle ragazze nella lotta di un tempo e alle ragazze di oggi una voce capace di imporsi empaticamente.
Bella ciao è come un gomitolo, precisa Carlo Pestelli. Andare alla ricerca del capo di questo gomitolo è scomodo, se ci si affida troppo alle diatribe stoiche.
Canzone dei partigiani, o non piuttosto canzone delle mondine, o forse un lontano canto Yiddish nato nella città di Odessa ( oggi sotto assedio della invasione russa, tanto de rendere ancora più attuale il suo messaggio di libertà) e poi emigrato in Americana e ritornare in Europa, strutturandosi infine con parole definitamente italiane.
Canzone italiana come l'italianissimo saluto internazionale ciao, ripresa come ritornello e con battito di mani, nelle versioni e negli arrangiamenti più diversi.
Una canzone mito, diventata soprattutto dominio giovanile dopo essere stata colonna sonora della serie televisiva cult La casa di Carta.
Fenomeno pop socialmediatico che non annulla anzi amplifica la sua coscienza politica.
Alcuni anni fa Bella ciao, con coraggioso sabotaggio, venne trasmessa dai minareti di Smirne e la canzone con la giovane che osò postarne l'evento, dovettero subire un processo rischiando la prigione, e oggi è anche un canto di riscatto di un popolo esule senza patria come quello armeno.
In Italia resta ancora, assurdamente una canzone divisiva, anche perché erroneamente associata a canzone comunista. In un anno in cui tornò al potere Berlusconi, si pensò di non farla cantare durante il concerto del primo maggio a Roma in piazza San Giovanni.
Ma non ci può essere un primo maggio senza Bella ciao
Così i Modena City Ramblers venendo meno al suggerimento la cantarono, con il loro inconfondibile introito musicale di stampo irlandese, incendiando di entusiasmo la piazza.
Bella ciao, canto di libertà è un puzzle, anche un po' confuso nel montaggio, ma resta una ideale bandiera col rosso colore della passione civile. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Antonio Miredi
Giulia Giapponesi al Bifest 2022
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Bella Ciao - Vinicio Capossela con Dimitris Mystakidis -
Bella Ciao · Modena City Ramblers
giovedì 21 aprile 2022
DONBASS, IL FILM DI LOZNITSA SATIRA GROTTESCA DI UNA TRAGEDIA COLLETTIVA UMANA
Fino a due mesi fa, la maggior parte degli italiani non aveva una idea precisa del nome DONBASS, l'area geografica del bacino del fiume Donec al confine orientale tra l'Ucraina e la Federazione Russa. Da quando l'orrore della guerra in corso fra i due Paesi, è entrato nelle nostre case, occupando tutti i telegiornali, i salotti televisivi, e le pagine dei media, si è preso finalmente coscienza di un conflitto iniziato nel 2014, ben otto anni fa, nel silenzio e nell'indifferenza quasi generale. Anzi, Putin oggi considerato per quello che da tempo non ha fatto mistero di essere, un despota con un sogno imperiale, già ex agente segreto della vecchia Unione Sovietica, al potere da più di vent'anni in uno Stato senza vera libertà di stampa e tutela dei diritti civili, con giornalisti e oppositori avvelenati, imprigionati, e uccisi , aveva nel nostro Paese fino quasi l'altro ieri, politici di primo piano estimatori anche pronti a rivendicare, con maglietta e foto, un sodalizio ideologico e culturale.
Questo per spiegare il perché il film Donbas di Sergei Loznitsa del 2018 sia apparso in alcune nostre sale solo ora, dopo quattro anni.
A scanso di equivoci, il lavoro cinematografico di Loznitsa non è un reportage o un docufilm che possa aiutare a capire meglio le ragioni storiche, etniche, culturali e politiche di una guerra scoppiata in Europa.
DONBASS è un film, cioè una fiction, con produzione occidentale che vede coinvolti Paesi, a cominciare dalla stessa Ucraina, come la Germania e la Francia.
Uno sguardo dalla parte occidentale sui territori in cui militari separatisti filorussi con pieno appoggio della Russia di Putin, dal 2014 hanno proclamato Repubbliche indipendenti non riconosciute politicamente da quasi tutti gli Stati.
Per paradosso di metafora, pur essendo un film, il messaggio che DONBASS veicola si rivela tuttavia più efficace di uno stesso documentario realizzato tenendo presente solo una parte di realtà.
La struttura circolare del film inizia e finisce con una roulotte che serve per il trucco di comparse pronte per essere usate dalla propaganda e snoda altri segmenti di episodi, tutti in vari modi, surreali, grossolani, grotteschi,
Follie criminali in cui non c'è spazio alla umana pietà, dentro una società dominata dalla violenza, dalla corruzione, dalla sopraffazione volgare. Non si parla ma si urla, non si comunica ma si finge.
Fino a coprire la tragedia della realtà con uno sorta di comico cabaret, verso la fine quando si festeggia un matrimonio benedetto dalla neonata Nuova Russia!
La metafora feroce del film è nel suo poter superare i confini contingenti di una Regione, di uno Stato, per denunciare la tremenda crisi di una intera umanità, votata alla autodistruzione, con lo spettro delle armi nucleari, pronta a mascherare ogni potere, individuale e collettivo, con le forme funeste di un fanatismo nazionalistico e ideologico.
Ad uscirne a pezzi non è solo una area geopolitica ma la stessa idea di civiltà, che riguarda ogni Stato, nessuno escluso.
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sabato 16 aprile 2022
IL FIABESCO DISEGNATO E SCRITTO DI LILIANA LANZARDO
Le Fiabe illustrate di Liliana Lanzardo in mostra e prossima occasione di un Laboratorio di disegno con i bambini delle scuole elementari, allo spazio dell'Associazione VOLERE LA LUNA di Torino.
“Una piccola Idea ogni giorno si mette in viaggio con la speranza di trovare qualcuno a cui suggerire....” è l'inizio di una fiaba, intitolata Il viaggio dell'idea, scritta e disegnata da Liliana Lanzardo, in mostra insieme ad altre due fiabe ( La vanità vola bassa, Caro amico ti scrivo da lontano, in un percorso sulle pareti nello spazio dell'Associazione Volere la Luna di Torino, che si apre a una passeggiata aerea e funambolesca fra le parole e le immagini.
Attività di ricerca sociologica e storica con lo scrupolo della attenzione metodologica e l'estro creativo fantasioso e bizzarro possono convivere e abitare in una stessa natura? Chi avesse dubbi a riguardo dovrebbe allora conoscere meglio la personalità di Liliana Lanzardo, la cui biografia è una testimonianza lineare di questo duplice spirito di libertà interiore assoluta.
Pur dedicandosi all'insegnamento Liliana Lanzardo sin dagli anni sessanta ha cominciato a disegnare e illustrare striscioni per manifestazioni cittadine, testi per periodici e via via illustrazioni e dipinti per diverse pubblicazioni e mostre storicizzate da cataloghi con interventi critici.
Un estro creativo che nel tempo si è sempre più definito con una sua inconfondibile cifra artistica, pur nella apparente diversificazione figurativa.
Come definire allora le immagini disegnate o dipinte delle sue fiabe, figure bizzarre, prodigi delle mente, naturalistiche espressioni antropomorfizzate in modo fantasioso?
Ebbene, lo spazio della rappresentazione delle parole è affollato da tutto questo, compreso quello che la stessa artista non esita a definire folletti, spiriti lievi e un po' birichini.
Opportunità e spunto per aprire la mente e la fantasia di bambini ed adulti a storie parallele in cui poi ognuno diventa regista e creatore di significati e significanti nuovi ed altri.
L'importante è mettersi in ascolto e avere non uno ma mille occhi anche invisibili.
Le parole e le immagini scatenano allora nuove parole e nuove immagini nella ingenua innocenza fanciullesca che conserva integrale la bellezza della sorpresa e della scoperta.
Un laboratorio di disegno, aperto ai bambini delle scuole elementari, diventa così motivo per l'esperienza rivissuta di questa scoperta-sorpresa delle parole e delle immagini che le fiabe possono regalare, in un regno ben diverso e contrapposto agli orrori della cronaca.
Antonio Miredi
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La mostra sarà aperta il giovedì e il venerdì dalle 15,00 alle 18,00, per gli altri giorni necessaria la prenotazione presso i seguenti contatti:
tel. 371 444 22 75 – email info@volerelaluna.it
https://viatrivero.volerelaluna.it/
lunedì 4 aprile 2022
CINEMA E OSCAR: CODA, I SEGNI DEL CUORE
CODA, il film Oscar 2022 della regista americana Sian Hederin in maniera naturale e credibile, senza retorica sentimentala ci dona il riso della comnedia sociale e l'emozione di un scelta umana capace di toccare le corde più intime, in una storia di disabilità e formazione
Canto come rabbia, come libertà, come ascolto , come silenzio. Al largo della costa americana vicino a Boston, Ruby Rossi, ragazza liceale di 17 anni, a tutto volume canta a squarciagola mentre lancia nelle ceste il pesce appena pescato.
La sua famiglia, padre, madre e fratello maggiore, sul peschereccio insieme a lei, sono non udenti.
L'inizio del film che ha vinto l'Oscar 2022, il cui titolo, rispetto al nostro generico I segni del cuore, è decisamente più esplicito: CODA, acronimo per Child of deaf adults.
In questa famiglia con disabilità uditiva, Ruby unica a sentire e parlare, è quindi una figura indispensabile.
E’ lei che fa da interprete, comunica con il mondo esterno, e deve risolvere con la parola i tanti problemi pratici.
Una grande responsabilità che Ruby affronta con maturità nonostante la giovane età, grazie al forte legame familiare pur con le sue tipiche conflittualità, ma che comincia a rivelarsi un grosso peso ora che avverte il bisogno nella libertà di seguire i moti del cuore e costruire un futuro più congeniale.
A metterla così duramente alla prova è anche la passione per il canto, scelta paradossale che non può essere capita e condivisa dalla sua famiglia data la sordità.
Un dramma umano e sociale che tuttavia il film presenta con i toni di una commedia con molti spunti divertenti e capaci di strappare il riso.
Memorabile certe battute del padre Frank ( Troy Kotsur, Oscar come attore non protagonista) rese nella lingua dei segni che la figlia con evidente imbarazzo deve tradurre a voce).
Non era facile, senza cadere nella inevitabile retorica sentimentale, trattare sul grande schermo il tema della disabilità dovendo anche cimentarsi in un confronto, dal momento che il film è il remake di un recente film francese, La famiglia Bélier.
La scelta della regista americana Sian Heder si è rivelata invece vincente grazie a una sensibile tutta femminile nell’individuare nuovi accorgimenti. Innanzitutto la scelta di far recitare degli attori sordi, in questo caso i componenti della famiglia Rossi, e puntando molto sulla voce e lo strumento del canto, che la giovane protagonista, Emilia Jones, ha saputo usare in maniera superba.
Canto fatto di ascolto ma anche di silenzio, elementi necessari entrambi della comunicazione.
Il canto permetterà così di dare a tutti i componenti della famiglia una nuova consapevolezza sul significato e sull’uso della parola. La parola in fondo serviva nella famiglia, prima di una nuova consapevolezza, solo come strumento e non come essenza interiore, per comunicare in profondità cercando di capire la individualità.
“Ci sono molte persone che hanno una bella voce ma che non hanno nulla da dire” dirà il maestro di canto a scuola a Ruby, all'inizio insicura e preoccupata di essere ridicolizzata, come altre volte le era accaduto.
In maniera credibile e naturale il film riesce così significativamente a passare dal riso di una commedia con contenuto sociale a momenti di commozione profonda, capaci di toccare le corde più intime di ognuno. (Antonio Miredi)
domenica 27 marzo 2022
IL CINEMA AL CINEMA: BELFAST
Kenneth Branagh confeziona in maniera impeccabile il suo nostalgico amarcod nell'incanto della infanzia poco propensa a cogliere il dramma sociale di una guerra civile fra protestanti e cattolici nell'Irlanda del Nor verso la fine degli anni sessanta.
Un atto d'amore rivissuto nella calligrafica nitidezza di un bianco e nero che accontenta gli occhi in maniera statica.
FOTOGRAMMI CON GLI OCCHI INCANTATI DI UN BAMBINO
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Belfast 1969. In un quartiere periferico della città dove tutti si conoscono, bambini e ragazzi giocano per strada.
Improvviso, l'urto di un gruppo violento irrompe nel quartiere, saccheggiando vetrine, finestre, facendo esplodere un'auto in sosta, e
rompe l'idillio ricordandoci che siamo negli anni in cui esplode la guerra civile nell'Irlanda del Nord fra la comunità cattolica e quella protestante.
Il dramma sociale di questa violenza che porta morte e distruzione non viene però messo a fuoco. Il film preferisce rimanere nella tenerezza di una famiglia di operai vissuta soprattutto con gli occhi spesso incantati del piccolo Buddy, nonostante la precarietà economica, l'andirivieni fra l'isola e il continente per ragioni di lavoro, il rischio della violenza in cui tutti sono esposti.
Restare o partire, è questo il dilemma che la famiglia si trova ad affrontare . Il piccolo Buddy vuole restare perché qui ha modo di parlare in complicità col nonno, continuare a giocare per strada, vedere dalla finestra la sua compagna di classe anche se lei è cattolica e lui protestante.( Un tocco di politically correct ci sta sempre bene)
Kenneth Branagh confeziona in maniera impeccabile il suo nostalgico amarcod ( Il regista è nato a Belfast nel 1960 quindi nel 1969 aveva 9 anni come Buddy, il piccolo protagonista della storia)
La fedeltà all'incanto che nella infanzia potevano dare il cinema e il teatro, la colonna sonora che riporta e ci trascina in quegli anni non facili eppure carichi di cose da fare e da vedere, e la bella nitidezza da fotogramma che il bianco e nero ci offre, concorrono per essere un sentito e vissuto atto d'amore, anche verso la terra in cui alcuni restano e altri lasciano.
il rischio è che l'emozione alla fine risulta raggelata da tutte questa studiata estetica-estatica rappresentazione di una stagione vissuta in maniera incantata.
Un film col carisma per piacere al grande pubblico, grazie anche alla maniera con cui il fanciullo gioca il suo ruolo, e pronto a imporsi nel rito delle premiazioni ufficiali, per le sue indubbie qualità visive e quel benefico abbandono alla nostalgia giovanile, così presente in tanti film oggi di successo.
Antonio Miredi
domenica 20 marzo 2022
IL CINEMA AL CINEMA: LICORICE PIZZA
Paul Thomas Anderson, il regista del sofisticato e impeccabile “Il filo nascosto” torna alla regia con una vitale leggera commedia, tuffandosi nella nostalgica vallata californiana primi anni settanta, con la sua indimenticabile colonna sonora.
CHE (RIN) CORSA L'AMORE
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Se si hanno dei dubbi riguardo all’amare, basta, nel peso dell’assenza, verificare quanto si è disposti a correre o rincorrere per l’incontro.
Gary Valentine (Cooper Hoffman) è un quindicenne grassottello e brufoloso, un po’ sbruffone ma abbastanza sicuro di sé, attore carismatico in una compagnia di ragazzi, con uno spiccato senso imprenditoriale degli affari. Alana Kane (Alana Haim) ha ben dieci anni di più, insoddisfatta e in cerca di un suo preciso posto nel mondo, non particolarmente bella ma capace di trasmettere una sua naturale attrazione.
Nel momento in cui Gary ha modo di vederla, durante le liceali foto di gruppo, dove Alana lavora come aiuto fotografo, è già convinto che quella giovane donna sarà sua moglie. Anche se da subito Alana lo prende in giro, gli ricorda quanto sia un moccioso ragazzino per niente fico. Eppure tra i due, un po’ necessità, un po’ per la caparbia insistenza di lui e la voglia di Alana di uscire da una sorta di gabbia, si stabilisce una strana e insolita intesa di coppia senza essere coppia.
Attorno a questa coppia stramba e libera, il regista realizza una commedia leggera e tutta giocata sul giro vorticoso di una estate americana primi anni settanta, nella familiare vallata di Los Angeles, con personaggi di adulti tratteggiati in modo caricaturale e sempre sopra le righe. Un modo anche per mettere in piena luce solo questa insolita coppia, intraprendente e tutta pronta a vivere il momento in cui si ritrova a recitare una parte, anche nella più disarmante ordinarietà e insignificanza fisica.
E poco importa se poi la storia precipita in un microcosmo della Valley che appare nel sobborgo di Los Angelesdi San Fernando persino provinciale, con episodi folli e stravaganti, sfilacciati e ridotti a frammenti di memoria.
In questo vortice senza una precisa narrazione la coppia continua a giocare il reciproco avvicinarsi e allontanarsi, in un continuo tira e molla ricco di piccole gelosie e piccole rivalità, spesso con un rovesciamento di ruoli. A volte è lui a sembrare più maturo e capace di prendere una nuova iniziativa di successo, altre volte è lei a prendere il controllo e far in modo di uscire da situazioni pericolose, come quando si ritrova a guidare un grosso camion a secco di benzina, (una delle scene più interessanti) giù per la collina californiana. I veri infantili alla fine sono solo gli adulti, tutti accomunati nel loro poter offrire spunti di riflessione ma senza un approfondimento. E anche per i due giovanissimi protagonisti, bravi e sempre credibili nella loro naturalezza, nessuna introspezione, nessuno scavo psicologico. Solo la forza di una vitalità capace di amalgamarsi alla perfezione dentro la stagione di quel preciso 1973, ricreato magnificamente, al punto da farci sentire estranei rispetto a un tempo passato che già ci appare lontano nonostante la sua magnifica indimenticabile colonna sonora, con canzoni anni sessanta e quelle dell'anno in cui la vicenda si colloca.
Per Paul Thomas Anderson, regista del precedente sofisticato e impeccabile “Il filo nascosto”, la trama è anche, se non soprattutto in questo ultimo film, materia, tessuto.
Il tessuto cinematografico ha una sua tale rilevanza linguistica da poter far a meno di una scorrevole intelligibilità narrativa. Per arrivare al significato del titolo del film bisogna risalire alla autobiografia del regista per sapere che Licorice Pizza era una famosa catena di negozi di vinili che in quegli anni erano meta quasi religiosa di tanti giovani americani assetati di libertà e musica.
Musica, con la nostalgia vintage verso gli Album a 33 giri simili a pizze di liquirizia, e vortice di giovinezza restano di sicuro grandi pregi ma non bastano per rendere un film un capolavoro: molti spunti non volutamente messi a fuoco, se non difetti, appaiono un limite.
La sottile e sotto traccia disamina a una società americana sempre in cerca di se stessa tra sogno e cinismo, indulgente e pronta ad auto assolversi, se c'è è talmente irriconoscibile da non venire percepita nemmeno dai tanti entusiastici giudizi riconducibili alla gioiosa e vitale estetica formalistica.
Troppo poco, se non si vuole lasciarsi andare solo al tuffo di una corsa, salutare ma nostalgicamente vacua, in questo nostro tempo di orrore.
Antonio Miredi
sabato 12 marzo 2022
UN COLPO DI FULMINE LA JAGUAR NERA DI DIABOLIK
Intervista esclusiva al manager proprietario della iconica Jaguar E-Type del 1962, auto di un mito del fumetto, Diabolik.
Quando nel 1961, al Salone di Ginevra, fu presentata per la prima volta la Jaguar E-Type, immediata fu la consapevolezza di trovarsi davanti a un capolavoro di perfezione estetica e meccanica.
Linea di eleganza sinuosa protesa in avanti, potenza di velocità e prestazioni in grado di non sfigurare e persino superare quelle di altre auto oggetto di desiderio come la Ferrari, la Meserati, la Aston Martin.
La Jaguar non poteva non essere l'auto di Diabolik, inafferrabile criminale a suo modo fascinoso, entrato nella storia del mito del fumetto grazie alla genialità creativa di due donne, le sorelle Giussani.
Ad unire Diabolik e la Jaguar è anche il comune anniversario di esordio, sessanta anni dalla loro apparizione della scena, nella realtà e nell'immaginario.
A Torino, in occasione dell'ultimo film su Diabolik dei Manetti Bros, interpretato da Luca Marinelli insieme a Cinzia Leoni (Eva Kant) e Valerio Mastrandrea ( l'ispettore Ginko), due mostre in contemporanea da poco conclusasi.
Al Museo del Cinema alla Mole Antonelliana sul mito del Fumetto dell'antieroe per eccellenza, in calzamaglia nera, mito capace di investire diversi linguaggi, aspetti e forme di espressione, e quella del Museo Nazionale dell'Automobile.
Vero colpo grosso al Museo dell'Automobile di Torino si è rivelata la presenza di una strepitosa Jaguar E-Type del 1962, esattamente come quella di Dibolik, proveniente da una collezione privata.
All'inaugurazione della Mostra, nel dicembre scorso, era presente, accompagnato dalla moglie, il proprietario della Jaguar, un manager che vive in una amena cittadina marchigiana, che ha permesso questa esclusiva intervista.
Naturalmente per ragioni di riservatezza, non viene elencato il suo nome.
Domanda: Come è nata questa passione collezionistica che l'ha portata a realizzare uno dei sogni esclusivi degli italiani, possedere una Jaguar come quella di Diabolik?
Risposta: Sono un lettore del fumetto del Re del Terrore dall'età adolescenziale: Un giorno uscendo di casa mi capitò di vedere davanti agli occhi proprio una Jaguar E-Type color verde british. Un'apparizione, un vero colpo di fulmine. Non credevo prima che questa auto esistesse nella realtà, pensavo appartenesse solo al mondo della immaginazione. Ho creduto persino che anche Diabolik potesse essere in carne ed ossa nei paraggi.
L'auto apparteneva a un commerciante collezionista, mio vicino di casa.
La casa di produzione del fumetto di Diabolik, l'Astorina, all'inizio non ha potuto inserire il nome Jaguar accanto a Diabolik, per il rifiuto della casa di produzione dell'auto che non voleva una propria vettura associata a un criminale. Poi quando è arrivato il successo, naturalmente il nome è stato inserito, anche se l'auto appariva già nel primo numero del fumetto. Ed è stato questo vicino di casa che poi mi ha aiutato a comprare la Jaguar nera coupè, prima serie del 1962, vista da un meccanico nei pressi di Roma, dopo diverse traversie che formano un'altra storia da raccontare.
Domanda: Si tratta di un'auto particolare non adatta a un uso familiare frequente. Un oggetto esclusivo di desiderio non del tutto consumabile.
Risposta: Si, è così. Mia moglie ha subito definito l'auto uno dei miei giocattoli, di certo il più esclusivo.
In effetti la uso raramente, solo per la normate periodica manutenzione e cerco di evitare di passare per le città.
Considero questa auto come una vera opera d'arte, capace di essere esposta come un quadro in un salotto per l'ammirazione e il piacere di essere guardata.
DOMANDA: C'è come una complice affinità fra Diabolik e la sua auto. Lo scatto fulmineo e felino, una forza morbida di coraggio e forma sinuosa.
Risposta: Non a caso l'auto è una Jaguar. La storia della scelta del nome viene del resto raccontata in un numero del fumetto. Diabolik è l'unico sopravvissuto di un naufragio marittimo. Alcuni criminali nascosti in un'isola, decidono di allevarlo e così viene cresciuto per essere un vero malfattore, fino a stringere un patto con King, il capo banda. Quando però quest'ultimo uccide una pantera, animale che tanto l'aveva affascinato, Diabolik lo uccide
e deruba gli altri criminali dell'isola, da dove fugge divenendo un vero esperto grazie anche a tecniche sofisticate apprese grazie a un certo Romin. Fino poi ad imbattersi in Dorian, il possessore della Jaguar di color nero che Diabolik, eliminato anche lui, farà sua.
DOMANDA: Ha visto il film appena uscito su Diabolik, cosa ne pensa?
RISPOSTA: Il film è ben fatto ma mi è sembrato anche staticamente freddo,con poca azione
DOMANDA: Cosa l'affascina soprattutto del personaggio Diabolik
Risposta: La sfida. Diabolik deve continuamente superare prove che presentano sempre più nuovi e difficili ostacoli. E lo fa con l'ingegno, il coraggio, la forza e anche l'astuzia e la capacità di usare le sue mille maschere.
Domanda: La sfida è un tratto anche della sua psicologia
Risposta: Si, totalmente. Anche nel lavoro bisogna avere sempre una sfida, continui stimoli.
DOMANDA: Riuscire a realizzare un sogno, come ha fatto lei, è anche un altro modo di porsi una sfida. Un sogno tutto suo, all'inizio, che non è stato subito condiviso da sua moglie.
RISPOSTA: Si, all'inizio mia moglie non è sembrata tanto entusiasta. In una decina di anni sarà salita in auto solo due volte. Quando però l'ha potuta ammirare a Torino il giorno della inaugurazione, tutta illuminata, anche lei, presa dalla emozione, si è sentita orgogliosa.
La moglie, Anna, presenza rassicurante, conferma, sollecitata ad intervenire a conclusione della intervista..
RISPOSTA: “ A Torino l'auto è sembrata nel suo splendore di oggetto esteticamente bello. Non sono particolarmente interessata a Diabolik come personaggio di fumetto, ma la bellezza fa parte della nostra vita. Accanto al valore della speranza. In un momento così difficile, come quello che stiamo attualmente vivendo, con tre figli giovani, mi viene solo da pensare alla speranza che non deve mai mancare nella nostra vita”
(A cura di Antonio Miredi)
mercoledì 23 febbraio 2022
PIRANDELLIANAMENTE TAVIANI
Paolo Taviani torna a Pirandello con un film spiazzante in due parti, in un doppio omaggio al fratello Vittorio recentemente mancato e alla poetica pirandelliana della vita rappresentata
Come raccontare un film non “raccontabile”? Partendo da Pirandello, e da un suo aforisma: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive. Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più: la subisce, la trascina.”
Pirandello non potendola “vivere” immagina la sua morte scrivendone le ultime disposizioni testamentarie. Un funerale senza solennità, nella nudità di una cassa di legno per poi incenerire il corpo e poterle infine depositare nella pietra viva della campagna della nativa Agrigento.
Disposizioni spiazzanti per un film spiazzante che parte propria da questo funerale non funerale, al suo tormentato viaggio nel tempo, con tutto il fastidio e la cura verso la morte di un corpo e un autore disturbante per l'Italia fascista e posfascista.
Taviani torna a Pirandello ma senza questa volta il fratello Vittorio, scomparso da poco. Un film omaggio a questo fratello con cui il film era maturato già subito dopo Kaos, un fratello la cui assenza è presente nel senso della morte e di un lutto da elaborare, e un omaggio allo stesso Pirandello la cui vita è stata solo e sempre Teatro, al punto da sentirsi persino al momento della premiazione del Nobel a Stoccolma come uomo profondamente solo e triste.
Un film in due parti spiazzante non unitario ma non separabile, in un bianco e nero, con spezzoni di cinema del neorealismo, e l'altra di un colore trafiggente come un chiodo. E “Il chiodo” è il titolo dell'ultima novella scritta da Pirandello, pochi mesi prima di morire.
Un funerale grottesco e la storia di un bambino costretto a lasciare la sua terra per l'America, sradicato e senza la capacità di un recupero di memoria di senso sacrale della vita che ha bisogno sempre di continuità, se non solo attraverso la morte del suo stesso futuro, affidato solo al gesto pietoso di una fedeltà vissuta come espiazione davanti a un cippo funerario.
Tutto nella circolarità pirandelliana di verità e finzione, assurdità e mistero. Inutile pirandellianamente cercare un senso attraverso la novella che dà il titolo al film, Eleonora addio, del tutto assente come storia.
Una grande prova registica per Paolo Taviani, quasi un personale testamento, e nella parte con protagonisti i bambini, forse un apologo per il nostro tempo, orfano di un futuro incapace di essere pensato se non attraverso il senso di una morte sempre presente.
Antonio Miredi
sabato 15 gennaio 2022
DAVIDE SASSOLI: IL VUOTO DELA SUA PERDITA NELLE ISTITUZIONI
Testimone ed esempio di integrità morale e gentilezza inclusiva, rigore e fermezza, il Presidente del Parlamento Europeo, Davide Sassoli, lascia un vuoro che sgomenta e inquieta in un momento cruciale della politica europea e nell'imminenza in Italia della elezione di un nuovo Presidente della Repubblica.
QUEL GENTILE SORRISO----------------------------------
Le notizie sui social corrono in tempo reale a velocità incredibile. Credo di essere stato uno dei primi a sapere, giorni fa, quando la notizia non era stata ancora diffusa dai media tradizionali, della morte del Presidente del Parlamento Europeo, Davide Sassoli. Un senso di sgomento e di vuoto mi hanno accompagnato tutto il giorno. Mi sono chiesto cosa in particolare abbia determinato questa sensazione di sgomento: non solo la morte improvvisa e per certi aspetti misteriosa, al punto da dare adito anche a miserabili speculazioni, ha pesato l’inquetudine verso l’incertezza politica che aleggia rispetto all’Europa e al nostro Paese, che nell’ immediato dovrà eleggere un nuovo Presidente della Repubblica e poi a seguire pensare un ricambio di governo.
A rendere irreparabile la perdita di un uomo politico integerrimo, gentile ma rigoroso e fermo nei principi imprescindibili, contribuisce la ferocia di questo nostro tempo così avaro di gentilezza, di volti sorridenti e inclusivi, di integrità morale.
Non c’è da meravigliarsi quindi della generale ondata di commozione e partecipazione che ha accompagnato Davide Sassoli fino all’ultimo saluto pubblico di oggi, con i funerali di Stato.
Resterà scolpito nella mente e nelle attese quel sorriso gentile.
Antonio Miredi
lunedì 3 gennaio 2022
LA CULTURA IN NOME DELLA BELLEZZA
Piero Maranghi, Direttore di CLASSICA HD e lo storico Leonardo Piccinini, con un programma e un libro rendono omaggio alla Bellezza, attraverso i mille spunti e le divagazioni che ci offrono gli anniversari di un almanacco giornaliero.
ATTENTI A QUESTI DUE__________________________-
di Antonio Miredi
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E' ancora nelle orecchie di molti italiani l'accattivante motivo musicale, un rondeau in stile rinascimentale, Chanson balladée divenuta sigla di ALMANACCO DEL GIORNO DOPO, la rubrica giornaliera delle rete nazionale della Rai che faceva da traino al telegiornale, con appuntamento quasi continuo dal 1976 al 1992.
L'Almanacco aveva una scaletta di brevi diversificate rubriche che facevano da cornice al contenuto centrale del programma, che iniziava dal Santo del giorno per poi concentrasi su un anniversario riguardo a fatti o a persone, con filmati storici o di archivio televisivo.
Non scherza neanche, in quanto a efficacia sonora, la sigla che apre l'attuale appuntamento quasi giornaliero dedicato agli anniversari che va in onda su CLASSICA HD (Canale 136), ALMANAZZO DI BELLEZZA, con la cura e la presenza di Piero Maranghi e Leonardo Piccinini.
Sulle note irresistibili del tema di Persuaders, la vecchia serie televisiva “Atteni a quei due”, l'Almanacco targato Sky, rispetto alla formula Rai, ha una sua connotazione del tutto nuova e originale, tanto da meritarsi un intervento sul Corriere della Sera del critico televisivo più illustre, Aldo Grasso, col perentorio titolo “Almanacco di Bellezza, il programma più snob della nostra tv”.
In realtà, nessuna pretenziosità, piuttosto un clima di cordiale complicità culturale, colta leggerezza, sana ironia e imprevedibile umoristica improvvisazione di battute col fiocco di godibilissime erudite citazioni.
Lo snobismo citato da Grasso, consiste anche in tutto questo.
Un anniversario, un fatto, un protagonista del giorno non sono presentati con fredda distaccata attenzione memorialistica, diventano invece occasione e pretesto per rimandi, libere divagazioni, collegamenti curiosi, nell'esaltazione di una comune passione per la Cultura, in tutte le sue forme espressive di linguaggio. Una cultura capace di farsi ed essere vivida Bellezza.
Giusto a ridosso di un nuovo anno, col suo calendario ricco di giorni da riempire con nuove emozioni, ecco la formula indovinata del programma presentarsi come interessante novità editoriale, una vera strenna editoriale da regalare o regalarsi.
Stesso titolo e stessa formula ma con la novità di un oggetto non ripetitivo e scontato, impreziosito dalle seducenti illustrazioni dell'artista Giuseppe Ragazzini.
Illustrazioni che accompagnano in modo vivace gli spunti, per una continua voglia di approfondimento o scoperta, verso la Letteratura, la Musica, il Cinema, una Opera d'Arte, un Museo, lungo il filo della Memoria.
Una idea di Bellezza ben lontana dalla imperante volgarità massificata e consumistica, vuota e sterile perché senza più il gusto del capriccio non produttivo e della consapevole interiore attenzione.
Gli spunti, al contrario, qui si prestano ad essere anche veri link per una navigazione, per un ipertesto mentale, fisico, geografico.__________________
Antonio Miredi
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Piero Maranghi, Leonardo Piccinini
Almanazzo di Belelzza. Divagazioni quotidiane e curiosità dal calendario
Rizzoli, 2021